OSSERVARE, ASCOLTARE, ESPRIMERE

Scrivere, come leggere, può ri-creare la realtà in un’esperienza intimamente autentica.

Ri-creativa.

La teoria che viene in supporto alla scrittura creativa può essere appresa, esercitata. Resa propria, può essere superata scrivendo e, narrando, dimenticata.

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sabato 30 marzo 2013

Ricordo

(di Giorgio Conti)


Se ora non fossimo qui, sarei dove sto di solito. Al parco, vicino il chioschetto dei gelati. Sul cartello, a fianco ai gradini di ingresso, c’è scritto “Parco dei limoni”.
Mi piace la sensazione dell’erba e della sabbia fina sotto i piedi, tra i cespugli bassi.
C’è scritto “Parco dei limoni” anche se di limoni non ne ho mai visti.
Cerco una panca libera accanto al tavolo di assi di legno. Porto qualcosa da leggere, ascolto la musica.
Dal chioschetto dei gelati, tra i tamerici, si vede la linea del mare. Resto lì finché arriva Martina.

La settimana prossima andrò a fare la spesa.
Sul volantino ci sono i formaggi in offerta. In freezer, c’è una porzione di zuppa di legumi.
Da quando ho iniziato a lavorare conservo sempre una porzione di legumi. Sono lessi e con un filo d’olio. Posso condirli con dei cubetti di pancetta e del curry. Mi piace il curry. E il soffritto di cipolle con una noce di burro. Il burro lega meglio i sapori.
Potrei fare questo per cena. Legumi e formaggio.
Lei è davvero gentile. Le presenterò Martina!

Anche ieri ero lì.
A pomeriggio inoltrato la brezza smette di soffiare. Il mare riflette i colori del cielo. Si sente solo la musica rock del chioschetto. “Love me do” si confonde nel silenzio, si disperde come fumo che sale.
Avevo tirato fuori dalla sacca il telo, l’acqua, i tovaglioli. Lo avevo steso sulla panca, mi ero avviato. Verso la musica. Attraverso i rami, le ombre iniziavano ad allungarsi.
Stavo tornando con due Nastro Azzurro.
Ma questo non lo ricordo…

Il cartoccio delle pizze profumava di origano e pomodoro. Era chiuso. Ancora caldo. Stavo andando a sedere con la mia bottiglia in mano. Non mi ero accorto di non essere solo. Avevo riconosciuto una voce, forse. Mi stavo girando. Lo stavo facendo lentamente. Faccio così ogni cosa, al parco dei limoni.
Non mi ero accorto di cosa avesse in mano.
Ero contento.
Questo me lo ha detto lei.
Non ricordo chi era. No, non ricordo se aveva i capelli neri o biondi.

Questa mattina mi hanno fatto delle domande a cui non sapevo rispondere.
«Scrivi con la destra?», hanno chiesto. Mi hanno dato un foglio.
«Prova a scrivere dei numeri, se ti vengono in mente. La tua data di nascita, per esempio». Uno di loro mi ha steso una penna. «Se vuoi, puoi aggiungere il nome di una città».
Sembrava che stessero aspettando qualcosa.
Ho poggiato il foglio sul risvolto del lenzuolo. L’inchiostro tracciava un piccolo solco.
Sentivo la testa pesante. Vedevo aumentare i numeri, in fila, uno dopo l’altro.
Non so quanto ho dormito.
Qualcuno mi tocca la spalla.
Li ho sentiti dire che andava bene così. Che era tutto a posto. I numeri potevo conservarli e giocarli al lotto, quando uscivo.
«Sei nato fortunato», hanno detto.
Questo lo ricordo.

Non ricordo di essermi coperto con un braccio, né come sono arrivato fin qui. Non ricordo di aver contratto la pancia. Questo lo sto sentendo ora.
Avevo detto «Che succede? », dice lei.
«Aspetta un attimo. Parliamone», avevo aggiunto.
Lei era lì. Ha visto tutto.
Non ricordo neppure questo.
Mi guarda. Ha gli occhi lucidi.

Sono qui perché non sono in forma per alzarmi. No, non era questo che chiedeva…
Non so cosa ho sulla tempia. «Quale garza?», rispondo. Da quanto tempo sono qui?!
Passa la mano sul viso. Tasto sopra l’orecchio.
Questa specie di mal di testa. Forse è la fasciatura. Sembra tutto lento. Finto.
No, non ricordo se ho inciampato.
Ho battuto sulla panca, dice.
Non mi ricordo.
Non ricordo niente di tutto questo, le dico.

Non so cosa rispondere, non so cosa dire mentre la ragazza con i capelli neri mi fissa. Stringe le dita davanti la bocca. Vorrei poter rispondere. Non so cosa fare. Vorrei poterla aiutare. Non so come.
Arrotolo il volantino. Lo stringo tra le mani. Sento il suo respiro farsi profondo.
Le chiedo se conosce Martina, se sa dov’è.
Martina. Lei la ricordo.

Forse ho detto qualcosa di sbagliato.
Le guance della ragazza con i capelli corti sono diventate rosse. Come i suoi occhi. Il mento trema. Devo aver detto qualcosa di sbagliato.
Prende un respiro.
La ragazza con i capelli neri si tira sulla sedia. Inghiotte. «No», dice, e si avvicina. La sedia sbatte contro il letto. Tira su col naso. «Non conosco Martina», sussurra. Profuma di muschio bianco.
Si stringe nelle braccia. Mi guarda.
Si abbandona sullo schienale. Non dice una parola.
«Me la descrivi? »
La sua voce è cambiata.

«Martina ha un fisico asciutto, i capelli rosso mogano. Da quando ci siamo trasferiti qui li tinge, ma non sono rossi. Sono lunghi e morbidi».
La ragazza con i capelli neri fa uno scatto. Si gira verso la parete. Sembra che qualcuno l’abbia chiamata. Guarda il pavimento. Non ho sentito niente. Insegue qualcosa con lo sguardo, fino alla finestra.
Fuori brilla il sole.
Allora mi fermo.
Torna a guardarmi.
La bocca no, ma i suoi occhi, neri, sorridono.
«Ha gli occhi scuri e un’espressione… se non la conosci diresti che è arrabbiata».
La osservo.
«Una volta, eravamo al mare, si avvicina, sorride e dice: “Questa è casa mia”».
Mi guarda.
Una lacrima cola giù dalla matita. Brilla.
«…oggi è domenica», dice.
«Domenica 5 ottobre».


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